Dove c’è riduzione c’è morte. Dalla lotta armata alla psicoanalisi passando per Mancuso.

Dove c’è riduzione c’è morte. Dalla lotta armata alla psicoanalisi passando per Mancuso.

Ma io ho preso i miei ergastoli per aver portato a termine delle uccisioni nei confronti di esponenti di forze dell’ordine…io non ho fatto saltare dei padri di famiglia che andavano a pagare bollette o gente che si recava in vacanza al mare, donne e bambini…“. — Francesca Mambro.

Eleonora Moro avrà trovato spiegazione in ciò che accade per il fatto che suo marito era presidente della Democrazia Cristiana, altrimenti non riuscirebbe a spiegarsi cosa succede.

Le ragioni di ciò che è avvenuto stanno nel ruolo che ciascuno di noi ha assunto.” — Mario Moretti.

La recente scomparsa di Sergio Zavoli e i servizi televisivi commemorativi, mi hanno permesso di riascoltare le inquietanti posizioni di Francesca Mambro e Mario Moretti intervistati dal giornalista.

Mambro e Moretti hanno sostenuto ideologie agli antipodi ma hanno in comune l’aver assunto posizioni estreme che hanno compreso la lotta armata.

Ciò che mi appare sconcertante è che il loro discorso , nonostante la divergenza politica, è sostanzialmente uguale.

E’ come se le loro parole presentassero una connotazione riduzionistica: la complessità e la drammaticità delle loro posizioni e delle loro azioni è appiattita.

Così come appiattita sembra la complessità del loro pensiero: c’è una logica lineare, semplice, senza contraddizione, sembrano addirittura stupidi.

All’epoca delle interviste erano trascorsi ancora pochi anni dalle vicende per cui sono stati imputati, interviste più recenti, almeno della Mambro, mostrerebbero un suo cambiamento.

Chissà, forse entrambi, riascoltandosi, avvertono di essere stati presenti a loro stessi solo in parte.

Il tutto si traduce in un effetto mortifero, non solo perché effettivamente hanno ucciso, ma perché c’è nella visione del mondo che propongono una sorta di scarnificazione, non c’è relazione con l’altro, solo identificazione in ruoli.

Non è questo il contesto per formulare ipotesi su quale sia stato il fenomeno storico antropologico che ha portato agli anni di piombo ma gli esiti sono storicamente documentabili e possono essere oggetto di riflessione.

Possiamo dire che sia avvenuto un sistema di interrelazione rigido tra Stato, militanti, cittadini.

Compartimenti non in comunicazione tra loro in cui ogni elemento si poneva in statica identificazione con un ruolo, espediente funzionale a mantenere un’identità stabile in un contesto storico che da almeno un decennio iniziava a presentarsi come “liquido”.

Per non incorrere nel pericolo della dissoluzione del proprio potere, lo Stato ha cercato di mantenersi al di sopra dello scambio e della mediazione, i militanti hanno assunto il ruolo rigidamente portato avanti di destabilizzatori dello stato, basti pensare, come esempio, al fatto che vittime delle Brigate Rosse sono stati anche uomini portatori di ideali che definiremmo di sinistra ma che si erano collocati in un ruolo di interlocuzione con lo Stato.

Certo: considerare l’altro, il nemico, semplicemente come se fosse una funzione è strategico se si vuole arrivare all’obiettivo di eliminarlo senza provare indugio, dubbio, pietà, ma credo che questa riduzione al ruolo non fosse solo funzionale all’obiettivo di uccidere, penso che fosse proprio la premessa: ad un certo punto non è stato più possibile per Mambro e Moretti vedere il mondo come relazione.

Cosa vuol dire vedere il mondo come relazione?

Nel disorientamento che mi ha provocato l’ascolto delle interviste , il testo “Il bisogno di pensare” di Vito Mancuso mi ha aiutato a trovare una chiave di lettura.

Innanzitutto mi sembra importante riportare parte dell’esperienza raccontata dalla Mambro e dal suo compagno, ora marito, Valerio Fioravanti.

Entrambi mettono in relazione almeno parte della motivazione ad aderire alla lotta armata con l’esposizione traumatica alla violenza che vedevano agire in quegli anni, ovunque attorno a loro, fino all’aver visto uccidere alcuni loro amici che all’epoca erano poco più che adolescenti.

Dalle parole della Mambro si percepisce uno sconcerto: ragazzi uccisi per il loro impegno politico, uccisi perché non volevano stare zitti.

Gli stessi ragazzi con cui si condividevano due chiacchiere e i banchi di scuola al mattino, organizzavano gli agguati alle sezioni di partito nel pomeriggio in cui altri amici venivano uccisi.

Portatori di un’ideologia di cambiamento per il bene del mondo e assassini contemporaneamente.

Una contraddizione insopportabile.

Eppure anche Mambro e Fioravanti hanno poi incarnato loro stessi questa contraddizione.

Il nemico era colui che portava un pensiero diverso e, di fronte all’opposto, l’unica possibilità era eliminare la polarità.

Ridurre.

E’ una riduzione, quasi una menomazione, perché in verità la vita è così, il pensabile è così: co-presenza di opposte polarità.

Dopo tutto, la biologia della vita e il pensiero stesso, l’intelligenza sono originati dal caos primordiale.

E’ un dato ineludibile.

Opposte polarità di pensiero, opposte polarità tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia.

Hegel ha scritto:

la contraddizione è la regola del vero, la non contraddizione del falso“.

Per Mancuso se questo contraddirsi non è visto e pensato rimane una contraddizione, ma nella misura in cui se ne prende coscienza esso ascende e, dal livello di contraddizione come errore logico, giunge al livello di antinomia, ovvero di consapevole scontro tra due leggi in contrasto l’una con l’altra ma entrambe veritiere.

Ma perché c’è questa insanabile contraddizione nel reale?

Possiamo pensare che la contraddizione è il frutto della complessità e la complessità è relazione.

E’ interessante pensare che tutto, dagli atomi alle stelle, agli organismi appare frutto di aggregazione, secondo una visione della natura abitata da un’intrinseca tendenza alla relazione e all’organizzazione sistemica.

La vita è l’esito di una tendenza all’organizzazione mediante aggregazione insita già nella materia inanimata.

Capra scrive:

la forza che dirige l’evoluzione va ricercata non negli eventi fortuiti delle mutazioni casuali, bensì nella tendenza intrinseca della vita a creare novità, nella manifestazione spontanea di un ordine e di una complessità crescenti

quindi si può cogliere nella materia un orientamento alla crescita della complessità e dell’organizzazione il cui esito più maturo è la coscienza.

Ricostruendo il processo che l’ha portata all’esistenza, la coscienza dell’uomo costituisce il luogo nel quale l’universo prende coscienza di sè.

Tutto ciò grazie alla relazione che è come la trama di cui è costituita la stoffa dell’universo, tutto, a partire dalla materia, è relazione.

Tutto ha dentro di sé la spinta all’aggregazione, tutto è sistema.

Non si può sfuggire a questa logica e chi prova “a far saltare il sistema” cade in un fallimentare tentativo riduzionistico.

Il principio costitutivo del reale è la relazione.

La spinta evolutiva ha portato dal caos al logos ed è lì che tende l’evoluzione, “il compito della vita è far sì che la vittoria conseguita a livello fisico si riproduca a livello mentale”.

La visione del mondo proposta da Mancuso è racchiusa nella formula “logos + caos”, in cui il caos primordiale è gradatamente plasmato dal logos.

Di fronte alla contraddizione Mambro non ha saputo sostenere una posizione davvero umana, la sua coscienza si è ridotta alla reattività.

La sua vita e quelle delle sue vittime sarebbe stata enormemente diversa se, alla luce di un’esperienza di dolorosa contraddizione, si fosse fermata ad assumere una posizione di vera riflessività.

Ecco: la possibilità di considerare le antinomie come caratteristica del reale e del pensiero e la possibilità di poterci stare difronte è l’unico modo sufficientemente ragionevole per stare di fronte alla vita e all’uomo.

Mambro e altri non hanno saputo assecondare la spinta che conduce dal caos delle contraddizioni al logos, spinta che è già dentro la vita, si sono arrestati prima.

Di fronte al caos hanno pensato che la strada fosse quella di zittire il rumore, di annientare la contrapposizione.

Ciò che ne deriva è un impoverimento.

Ciò che ne deriva è l’impossibilità di sentirsi in una dinamica di relazione intersoggettiva in cui le parti, per quanto contrapposte, sono necessarie a consentire all’uomo uno scarto di conoscenza che gli consenta di assumere una posizione soggettiva e di declinarsi nel reale secondo una sua peculiare soggettività.

Scrivo questo pensando anche ad una particolare forma di relazione, quella tra analista e paziente, in cui consentire e
guardare insieme l’emergenza delle polarità opposte insite nel soggetto è un passaggio fondamentale, ciò che è nell’ombra viene alla luce perché il Soggetto ne prenda consapevolezza, integri le parti scisse e generi il suo simbolo, cioè ne faccia una propria sintesi soggettiva.

Dall’inconscio spesso emerge in modo dirompente la contrapposizione di polarità.

In particolare penso alla clinica dei disturbi alimentari in cui ci imbattiamo in una contraddizione.

L’estremo deperimento del il corpo diviene portavoce della volontà di sparire rendendosi invisibili e allo stesso tempo rende la sofferenza del soggetto evidente, attira gli sguardi.

E’ un escludersi dal mondo che svela, il più delle volte, un implicito desiderio di relazione.

Penso anche alla relazione d’amore in cui accogliere la complementarità dell’altro che si mostra sempre irriducibile al nostro tentativo di assimilarla a noi, genera in realtà un senso di unità e permette un scarto di consapevolezza, un’evoluzione.

E’ questa, il riconoscere che diamo forma al caos attraverso la relazione intersoggettiva, una possibile “ideologia” sovversiva per il cambiamento del mondo verso il bene e il bello.

 

Stefania Greppo