Qualche riflessione: l’amore al tempo del Coronavirus

Qualche riflessione: l’amore al tempo del Coronavirus

In questo periodo il titolo dell’opera di Gabriel Garcia Marquez, “L’Amore ai Tempi del Colera”, è stato citato in modo stravolto decine di volte, basta guardare Google e si trova, in ordine di apparizione: pensieri al tempo del coronavirus, la vita al tempo del coronavirus, il sesso al tempo del coronavirus e poi ancora: la scuola, la quaresima (!), la solidarietà; ma forse è, invece, proprio di amore che si deve parlare.

Premetto che sto parlando da una posizione privilegiata, sono medico ma in questo momento sono comodamente seduta a casa e posso seguire dal mio salotto, le notizie -tragiche- di contagi e di medici all’opera in prima linea, ma ciò che posso dire è che in questo periodo, nel confronto con familiari, amici e colleghi, ciò che emerge di più è proprio chi siamo noi, che tipo di persona siamo, che posizione umana stiamo sostenendo.

Se avessimo la capacità di riflettere su di noi, dentro di noi, riusciremmo a trovarci faccia a faccia con noi stessi, riuscendo a capire a cosa stiamo dando valore e a cosa vogliamo darlo.

Intorno a me vedo un’umanità varia: medici che si offrono volontari per intervenire in prima linea, medici che accettano di assumere la responsabilità di decisioni e linee di intervento, medici che si sono trovati in prima linea senza chiederlo (quale medico firmando il contratto di assunzione con l’Ospedale di Codogno avrebbe potuto immaginarsi eroico?), medici che riescono ad esprimere solo paura senza neanche dirselo fino in fondo (forse sarebbe più nobile) e anziché accogliere la propria vulnerabilità eccedono in polemiche accusatorie su cosa lo Stato, la Regione, la Direzione ospedaliera, la Protezione Civile, l’ONU, avrebbero dovuto fare di diverso, sui presidi insufficienti, sul fatto di sentirsi esposti inutilmente.

Ecco ma chi si espone, cioè chi accetta di stare alla realtà così per come è, anche con le poche e insicure mascherine che ci sono, lo fa inutilmente?

E’ una pazzia andare a lavorare senza mettersi in malattia o in congedo aspettando la sfioritura della pandemia?

E’ un’inutile follia visitare anche se nessuno ti dà la certezza di non essere contagiato?

Come se fare qualcosa per qualcuno, anche rischiando, fosse inutile e folle.

Ma, ad esempio, mettere alla luce qualcuno non è un rischio che l’umanità ha sempre accettato di correre?

Lo sentiamo inutile e folle?

Se i nostri predecessori fino al precedente secolo in cui le morti di parto erano ancora una percentuale altissima, avessero ragionato così, si sarebbe estinta l’umanità…

Sappiamo, citando Cazzaniga, che

dai batteri agli esseri umani, gli organismi sono attraversati da istanti di ogni sorta.

Sopravvivenza, riproduzione, resilienza, andatura, ma non solo: anche facoltà più complesse come il linguaggio e la socievolezza sono istinti.

L’elenco sarebbe molto lungo…“.

Forse affermare la vita dell’altro è uno di questi istinti e forse lo è anche prendersene cura…

Ieri una giovane paziente mi ha raccontato che la propria madre, medico di base in provincia, aveva due sole mascherina una delle quali regalata ad una collega che ne era sprovvista.

Forte della sua unica mascherina rimasta, la mamma della paziente ha preso la decisione di recarsi al domicilio di una signora anziana, ormai presumibilmente COV-19 positiva, per comunicarle il decesso del marito che era stato ricoverato qualche giorno prima per la medesima infezione: non si è sentita di darle una comunicazione così dolorosa per telefono.

Che cos’è che muove una persona ad un simile gesto di cura per l’altro, di radicale umanità?

Cos’è successo in questo caso?

All’istinto di sopravvivenza personale si è contrapposto un altro istinto?

Quello di cura?

Al polo opposto ci sono colleghi che millantano il rifiuto a visitare i pazienti se non dotati di tutti i presidi adesso ritenuti più efficaci.

Scrivo millantano perché non sono affatto convinta che di fronte ad un paziente che sta male riescano veramente a tirarsi indietro, l’abbiamo detto prima: in fondo prendersi cura è un istinto…per far tacere questo istinto ci vorrebbe proprio una sotto-cultura della meschinità di cui fortunatamente i più sono sprovvisti.

Ciò che mi ha colpito è che i colleghi in questione, nella loro polemica di aggressiva paura, abbiano fatto risuonare a gran voce la loro domanda stizzita “e perché c..zo dovremmo farlo (visitare i pazienti se non ci sentiamo perfettamente in sicurezza)?“.

Oltre che risuonare nella stanza riunioni, la domanda è risuonata dentro di me…

La prima risposta che mi sono data è “perché siamo medici“.

Ma questa risposta mi lascia insoddisfatta.

In effetti nella scelta di essere medici non è proprio implicita l’idea di mettere a rischio la propria vita, al limite quando ci si iscrive a Medicina si mette in conto che si dovrà tollerare la responsabilità, il sacrificio di svolgere i turni di notte e nelle festività, il rischio di sbagliare e di dover tollerare la colpa, anche se, in verità, chi svolge la professione di psichiatra prima o poi ha incontrato l’aggressività e ne ha avuto paura e, dunque, ha imparato sulla propria pelle che la professione ti può mettere in pericolo.

Ma quand’anche non fosse tenuta in conto la percezione del rischio, è pur sempre vero che non si può essere medici senza pensarsi al servizio del paziente che davanti a te esprime la sua sofferenza e il suo bisogno.

Dunque alla domanda “per che c..zo dovremmo farlo?” l’unica risposta possibile è: “perché siamo uomini“, o almeno perché vorremmo esserlo fino in fondo, non bestie ma soggetti in grado di affermare il bene, il valore dell’essere, perché sappiamo che la realtà non è così altra rispetto a noi e se vogliamo una realtà pregna di valore e di senso dovremmo iniziare a considerare che questo valore e senso siamo noi a costruirlo con ciò che pensiamo e che facciamo.

Rispetto a questo mi viene in mente un esempio: dopo un attentato terroristico in Germania, era stato chiesto ad Angela Merkel di decidere se proclamare il lutto nazionale sospendendo ogni attività politica oppure proseguire con le elezioni già programmate.

Ricordo di aver pensato con panico: ma io come farei a decidere? quali sono i criteri a cui ci si deve rifare per
decidere? Ci sarà una sorta di “etichetta” di Stato in questi casi?

Angela Merkel ha risposto dando lei il suo criterio e facendo secondo me, un’operazione creativa, con il suo criterio ha in qualche modo plasmato la realtà contingente dandole un significato da cui si sentiva rappresentata.

La sua risposta suonava più o meno così:

noi crediamo nella democrazia che è proprio ciò che i terroristi hanno voluto colpire, dunque la cosa migliore che possiamo fare, anche in onore delle vittime, è affermare la democrazia e andare a votare“.

Con questa affermazione di significato ha colorato la realtà contingente con i valori della libertà e della solidarietà.

Così credo che la naturale oscillazione (che c’è dentro di noi e che prende la forma dei diversi atteggiamenti che vediamo rappresentati nella collettività) tra il volersi garantire la propria sopravvivenza e il prendersi cura dell’altro anche rischiando, possa essere superata dando una risposta alla domanda: che realtà voglio costruire in modo che mi rappresenti? cosa voglio affermare?

Ora come ora, proprio grazie all’ umanità varia , sia eroica che vile, che vedo rappresentata intorno a me e che mi rappresenta perché io ne sono parte, posso dire che mi interessa affermare la cura che sento per il mondo e l’amore per l’essere.

Ecco che si chiude il cerchio: l’amore al tempo del Coronavirus.

 

Stefania Greppo