Sentire o non sentire, questo è il problema. O l’inizio del problema.

Sentire o non sentire, questo è il problema. O l’inizio del problema.

Vi ricordate quando a Gennaio ascoltavamo più o meno distrattamente le prime notizie della diffusione del Coronavirus in Cina?

In quel momento si avvertiva forse appena un senso di minaccia, forse c’era già la consapevolezza che con l’infezione avremmo dovuto averci a che fare anche noi, in Europa, ma sembrava, comunque, tutto molto lontano, procrastinabile.

Forse c’era l’idea che qualcuno sopra di noi, le Istituzioni, se ne sarebbero occupate.

D’altra parte siamo ben abituati a questo strano sentire e non sentire.

Non sentiamo (e vediamo) anche le notizie strazianti della Siria?

Ci impressionano ma è come se non ci attraversassero fino in fondo, non ci muovono…

Una paziente, donna molto capace e affermata nel suo lavoro ma in difficoltà nel comprendere il proprio mondo interno e nel vivere le relazioni, racconta questo sogno:

Era morto un mio amico prete per il coronavirus, ero lontana dagli altri amici e potevamo sentirci solo via
chat.

Avevo la sensazione che fosse successo già da tempo, che gli altri ne avessero discusso via chat mentre io mi accorgevo di esserci arrivata dopo e nel sogno mi chiedevo: ma perché non l’ho capito?

E anche quando me ne sono resa conto era come se non riuscissi a sentirlo veramente.

Allo stesso tempo un altro paziente mi dice di sentirsi “fortunato” per il fatto che rimanere a casa per il
lockdown significa rimanere con la propria famiglia.

Se fosse rimasto da solo ne sarebbe stato terrorizzato.

Cosa lo/ci terrorizza?

Non sono ancora abbastanza sicuro di me, come idea di me stesso nel mondo.

Se passassi un weekend da solo, come capita ai miei amici che sono già andati a vivere da soli, senza sentire la voce di nessuno intorno a me, sarebbe come scomparire, non avrei prova tangibile della mia esistenza, come se uscissi dalla realtà.

Non ho abbastanza sicurezza nei rapporti, non penso che le mie amicizie siano frivole o superficiali ma so che sentirei il pericolo di sentirmi tagliato fuori.

Perché è così difficile sentire?

Proprio adesso che siamo in continua connessione, proprio adesso che siamo bombardati dagli stimoli?

Cos’è che non riusciamo a sentire?

Gli esempi riportati ci fanno supporre che sia difficile sentire emozioni e relazioni e, comunque, è difficile avere un senso di sé chiaramente definito.

Quella del non sentire sembra proprio una patologia dei nostri tempi.

Lo sa chi si occupa di disturbi di personalità i cui sintomi cardine riguardano proprio la dimensione emotiva e relazionale.

La situazione emergenziale sembra portarci proprio qui, alla radice della patologia moderna del non sentire, in qualche modo aiutandoci o offrendoci la chance di sovvertirla dal momento che ci fa sperimentare in modo forte e
ineludibile un’emozione cruenta, la paura, primum movens di un processo che potrebbe essere
rivoluzionario.

Penso che ognuno di noi in questi mesi, con la diffusione del coronavirus, si sia reso conto di avere avuto paura: paura di ammalarsi, di far ammalare, di perdere le persone care, di perdere la propria sicurezza economica.

Ma questa paura, sebbene si declini individualmente perché ognuno è esposto alla possibilità della perdita della propria salute, della propria vita, dei propri cari, ha, però, una dimensione decisamente collettiva: siamo consapevoli che gli altri intorno a noi stanno vivendo la stessa esperienza.

Credo che questo sia un punto di forza nel permetterci di sovvertire il non sentire.

Per comprendere come si possa accedere al sentire se stessi e alla relazione con gli altri e quindi ad una posizione di assunzione soggettiva e di coinvolgimento attivo, ho letto il testo “La cura del Mondo” di Elena Pulcini, docente di filosofia all’Università di Firenze, la quale, già in tempi non sospetti, aveva analizzato il legame tra paura, riconoscimento della vulnerabilità e ripresa di una posizione attiva di cura del mondo.

Per aiutarci a comprendere la portata dell’esperienza di paura, Pulcini ripercorre il pensiero di Hobbes, il quale aveva considerato la paura nella sua accezione positiva di spinta al superamento della conflittualità.

Per la paura degli esiti della conflittualità tra sé e l’altro, l’uomo decide di scendere a patti, delega allo Stato la legge che permette il superamento dello stato di natura e ripristina l’ordine e la sicurezza in cambio della rinuncia alle passioni egoistiche e predatorie individuali.

È interessante questo modo di intendere la paura perché Hobbes fa emergere il coté positivo, in quanto emancipativo, di un’emozione di per sé perturbante.

La paura di cui parlava Hobbes, però, non è la paura che ci troviamo a vivere oggi.

La paura di adesso non è la paura per il nemico con cui entriamo in conflitto per il godimento di una libertà che vorremmo illimitata; la paura attuale ha superato i confini territoriali, è planetaria e non ha qualità identificabili, tangibili e predeterminate, è più vicina al concetto di rischio piuttosto che a quello di pericolo, basti pensare al terrorismo, alla minaccia della degenerazione del pianeta o alle pandemie proprio come quella in corso.

Ciò che è certo è che si tratta di minacce che superano il limite geografico e temporale: riguarderanno, infatti, anche le generazioni future.

Elena Pulcini ci mette in guardia dal fatto che, nel vivere le paura dei nostri tempi nella sua indeterminatezza, siamo esposti a due possibili derive: il diniego e lo spostamento.

Nella reazione di diniego il rischio viene riconosciuto razionalmente ma non viene percepito emotivamente (ricordate l’esempio a proposito delle notizie della guerra in Siria?): costruiamo trincee emotive pur essendo al
corrente di tutto.

Il diniego ci spinge ad essere passivi e indifferenti, spettatori degli eventi.

Tutto viene allontanato, esorcizzato, ironizzato. La seconda deriva è quella dello spostamento. L’uscita dall’incertezza, dalla sensazione di rischio, avviene mettendosi in una posizione di vittimizzazione, con l’individuazione di un capro espiatorio.

La proiezione della minaccia avviene solitamente su soggetti deboli, che stanno-fuori, come avviene, in questi tempi, rispetto ai migranti.

Nella prima deriva, quella della passiva indifferenza si assiste all’assolutizzazione dell’individualismo, all’ossessione dell’IO che ha, come contro partita, la negazione del pathos; nella seconda deriva si assiste all’assolutizzazione di un NOI, che si contrappone al capro espiatorio e ha come contropartita un aumento del pathos.

Nel primo caso indifferenza, nel secondo caso violenza.

Come si esce da tutto questo?

C’è la possibilità di tornare a sperimentare la paura come una spinta emancipativa, come un fattore di cambiamento evolutivo?

C’è la possibilità che la paura torni ad essere, come dice Hannah Arendt, una passione mobilitante?

Se ci assumiamo soggettivamente la nostra esperienza di paura, la paura stessa può spingerci a superare la posizione di spettatori apatici.

Possiamo comprendere la vulnerabilità personale e collettiva, la fragilità che ci caratterizza, senza negare un’eventuale responsabilità nell’aver prodotto gli eventi che ora ci appaiono minacce.

Attraverso questo sentire è possibile uscire dalla condizione di passiva indifferenza e delega alle Istituzioni per tornare all’azione che, come direbbe Hannah Arendt, sottende “un fare insieme”.

Proprio questo agire comune, per il bene comune, è, tra l’altro, il senso della politica.

Possiamo superare il delegare in virtù dell’assumere soggettivamente.

A ben riflettere, non mi è sembrato chiaro come Pulcini prefiguri questo passaggio, mi sembra che ci sia un vuoto logico.

Ho pensato, però, che si potrebbe dire che l’emergenza può innescare il passaggio dal sentire al conoscere.

Questo passaggio non può che essere mediato dall’uso della funzione riflessiva che ci permette di riappropriarci dello statuto di soggetti attivi, presenti a noi stessi e soprattutto costitutivamente in relazione con l’altro.

Riconoscendo i nostri bisogni ma anche le nostre attese, condivise collettivamente, possiamo intuire che saremo spinti ad un fare insieme che diventa allora cura del mondo.

Questi passaggi sembrano essere il presupposto per rifondare il soggetto.

Vivere veramente, umanamente l’esperienza di paura di questi giorni significa prendere coscienza della condizione di vulnerabilità che ci caratterizza, e che ci viene rispecchiata dagli altri intorno a noi, assumerci la responsabilità di essere chiamati dall’altro con cui siamo costitutivamente interconnessi e rispondere attivamente prendendocene cura.

Con la parola cura non intendiamo certamente ridurre il concetto all’accezione assistenziale e sanitaria (per quanto nell’emergenza attuale sia anche concretamente questo), ma intendiamo sollecitudine, interesse, intenzione a garantire agli altri la possibilità di essere soggetti.

Ripercorrendo le riflessioni di Elena Pulcini ci si chiede se l’aspirazione a questa capacità di prendersi cura debba essere ritenuta una forma di altruismo, di un atteggiamento oblativo e sacrificale.

Se fosse così sarebbe possibile solo a partire da due condizioni: il dono gratuito sostenuto da un vincolo affettivo
personale ed individuale, ma in tal caso resterebbe un’azione all’interno di una sfera intima, non un agire su
ampia scala con effettive prospettive di cambiamento sociale; la seconda condizione potrebbe essere
quella della spinta a darsi agli altri senza contropartita, in una sorta di volontariato, ma se così fosse questa
spinta potrebbero averla alcuni ma non tutti, non sarebbe una dimensione universale.

È molto più interessante pensare che il prendersi cura sia invece un fattore costitutivo dell’umano.

Questo possiamo affermarlo a partire dalla riflessione per cui non possiamo eludere la dimensione relazionale
dell’individuo.

Levinas in “Altrimenti che essere o al di là dell’essenza” scrive:

La responsabilità per altri non può avere avuto origine nel mio impegno, nella mia decisione.

La responsabilità illimitata in cui mi trovo viene dall’al di qua della mia libertà, da un ‘prima di ogni ricordo’, da un al di qua o al di là dell’essenza“.

Per Levinas essere responsabili significa addirittura rispondere in modo obbligato alla chiamata dell’altro senza, tuttavia, che ciò determini una negazione del soggetto.

Per Levinas il soggetto si costituisce solo attraverso la relazione etica con l’altro.

Dunque, la responsabilità per l’altro è proprio ciò che instaura la libertà dell’Io.

Levinas, però, sembra mettere l’accento sull’esperienza di decentramento da sé, delinea un soggetto “irriducibile alla coscienza”.

Questa è la radicalità del pensiero di Levinas: nella definizione dell’umano è l’etica ad avere la supremazia sull’ontologia, sulla coscienza.

Non mi sentirei certo di sposare il pensiero di Levinas ma di integrare l’intuizione della costitutiva interconnessione con l’altro con un pensiero che restituisca al soggetto il primato della coscienza.

Ovvero un soggetto è fino in fondo soggetto quando, a partire dallo sguardo riflessivo su di sé, si riconosce costitutivamente fatto per essere in relazione con l’altro.

Come avviene l’acquisizione di questa consapevolezza?

Si possono produrre “prove” su più piani, dalle evidenze neuroanatomiche, basti pensare alla raffinatezza degli apparati con i quali comunichiamo e alla spinta a comunicare che ha attraversato tutta la storia, oppure alle nuove scoperte neuroanatomiche quali i neuroni a specchio, ma possiamo portare anche “prove” allargando lo sguardo
dall’individuale al collettivo e, in questo periodo, è proprio ciò che più facilmente ci accade.

Il bisogno, la spinta alla solidarietà e il sentirsi accomunati dalla stessa esperienza ci rimandano ad un senso di
fratellanza, di connessione con il mondo.

Non solo, quello che accade fuori di noi e che vediamo rispecchiato nel sociale lo riconosciamo anche come una dinamica che avviene dentro di noi.

Scrive Silvia Montefoschi:

Lungo la strada della presa di coscienza l’individuo arriva a riconoscere nella problematica personale l’espressione individuale della problematica sociale“.

Mi verrebbe da dire che in una situazione emergenziale, come può essere quella della pandemia COVID-19, può benissimo accadere che si faccia esperienza di ciò che afferma Levinas: il bisogno è tale che alcuni sentono la spinta ad aderire immediatamente alla richiesta dell’altro o di rispondere attivamente e concretamente alla situazione di
grave bisogno che si crea.

Si è spinti ad agire sull’immediatezza con immediatezza, ma in un tempo appena successivo, se riusciamo ad essere soggetti, assumendoci coscientemente l’esperienza di essere con l’altro, per l’altro, possiamo fare un salto di consapevolezza.

Riusciremmo così a sentire, ritornando al discorso iniziale della difficoltà a sentire, che siamo costitutivamente fatti per questo livello di interdipendenza: il destino degli altri lo sentiremmo come il nostro destino.

Esserci con la nostra consapevolezza e con la nostra cura per noi e per gli altri riempirebbe di significato il dispiegarsi storico della nostra esistenza.

Questa consapevolezza credo non ci lascerebbe indifferenti e passivi ma ci muoverebbe all’azione (sempre nell’accezione di Hannah Arendt del fare insieme).

Dunque possiamo dire che l’emergenza che viviamo così connessa all’emozione della paura, ci spinge con irruenza alla dimensione del sentire e dell’agire immediato per il mio bene e per quello degli altri.

Da questa esperienza così immediata può nascere la consapevolezza della propria interconnessione con il mondo, e del fatto che il senso dell’esistenza sta proprio nell’acquisire questa consapevolezza e nello spendersi per essa.

Ma lo spunto da cui abbiamo iniziato partiva dalla clinica.

Potremmo dunque chiederci se questo discorso possa avere un’implicazione anche sull’operatività clinica di questo periodo, o meglio, da questo periodo in poi.

La clinica è già stata in parte modificata nel suo setting: dall’incontro vis a vis si è necessariamente passati alla modalità a distanza e l’irruzione di questo cambiamento, sebbene transitorio, mi sembra, tutto sommato, aver facilitato l’introduzione di un’occasione terapeutica.

Se da una parte mi è sembrato che il vivere la paura elicitasse il ritorno al racconto di traumi e situazioni della storia personale congrue con questa emozione, dall’altra parte credo che con tutti i pazienti ci si sia trovati a commentare (anche solo per accordarsi sulla nuova modalità di seduta) la situazione emergenziale e credo che questo sia evolutivo e che vada sostenuto.

Il tema individuale inizia a intrecciarsi con il sociale.

Montefoschi riporta un’affermazione di Jung:

non realizza il Sé chi non è in rapporto con il mondo, ma chi realizza il Sé opera sul mondo una grande trasformazione“.

La situazione in cui siamo immersi offre quindi all’analisi un terreno fertile per riflettere e prendere parola su quello che sentiamo (o non sentiamo), sulla posizione che stiamo assumendo rispetto agli accadimenti e rispetto agli altri riconnettendoci con la nostra costitutiva soggettività e relazionalità.

Bibliografia:

  • Elena Pulcini, La cura del Mondo. Paura e responsabilità nell’età globale. Bollati Boringhieri, Torino, 2009

Nel testo Elena Pulcini cita:

    • Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza. Jaca Book, Milano, 1984
    • Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana. Bompiani, Milano, 1988
    • Thomas Hobbes, Elementi di legge naturale e politica. La Nuova Italia, Firenze, 1987
  • Appunti e trascrizioni da relazioni pubbliche tenute dalla prof. Pulcini (Festival della Filosofia 2009 e 2013, Pistoia 2012)
  • Silvia Montefoschi, Dialettica dell’inconscio. Feltrinelli, Milano, 1980.

 

Stefania Greppo